Cosa significa mettersi in cammino per centinaia di chilometri, attraversando paesi, paesaggi e secoli di storia?
Per Eamonn Mullally, ex consulente informatico oggi in pensione e uomo dallo spirito profondamente riflessivo, è stato un viaggio interiore, fatto di solitudine, fede e di quei momenti imprevisti che solo un pellegrinaggio autentico sa regalare.
Cresciuto nella tradizione cattolica, la sua vita ha preso direzioni inaspettate: dopo anni di matrimonio, sua moglie ha sentito la chiamata al sacerdozio nella Chiesa Anglicana, una scelta di fede profonda che ha segnato un nuovo capitolo nel loro percorso insieme. Oggi Eamonn è membro del consiglio direttivo della Confraternity of Pilgrims to Rome a Londra e porta nel suo cammino quello stesso spirito di dedizione e ricerca.
Partito da Canterbury, ha raggiunto Roma e poi ha proseguito fino a Santa Maria di Leuca. Ma più che una sfida fisica, il suo è stato un pellegrinaggio personale: un cammino di crescita e trasformazione, in cui ogni passo ha aperto spazi di riflessione, guarigione e incontro.
Ci ha raccontato la sua esperienza, spiegandoci cosa spinge un pellegrino moderno a mettersi in cammino.
1. Quale tratto della Via Francigena hai percorso?
Ho camminato da Canterbury fino a Roma, e poi ho proseguito verso sud fino a Santa Maria di Leuca. Sempre a piedi, tranne che per l’attraversamento della Manica, il traghetto sul Lago di Ginevra e il passaggio sul Po con Danilo Parisi.
2. Quanto tempo hai impiegato? Hai viaggiato da solo o con altri?
Ho suddiviso il cammino da Canterbury a Roma in cinque fasi, tra giugno 2022 e aprile 2025, per un totale di circa 90 giorni di cammino. Il tratto verso sud, fino a Santa Maria di Leuca, l’ho percorso con due brevi pause: in tutto 34 giorni, tra fine aprile e inizio giugno 2025.

Preferisco camminare da solo, per avere tempo di pensare e meditare. Detto ciò, mi è capitato di condividere qualche tappa con altri pellegrini conosciuti lungo il cammino.
3. Cosa ti ha spinto, anni dopo, a riprendere il cammino da Roma verso Santa Maria di Leuca?
Andare verso sud è stata quasi una conseguenza naturale. Più mi avvicinavo a Roma, più sentivo una chiamata verso Gerusalemme. La meta è importante, certo, ma ancora di più lo è il modo in cui ci si arriva.

4. Come si è evoluto, nel tempo, il tuo modo di vivere il pellegrinaggio?
La spinta a mettermi in cammino è nata dopo aver percorso, anni fa, parte del Cammino di Santiago con la mia famiglia.
All’inizio lo vivevo come un’attività fisica. Oggi è diventato qualcosa di molto più profondo: un gesto che dona benessere psicologico e spirituale, un atto di pentimento per gli errori del passato. Non posso cambiarli, ma posso cercare di comprenderli e imparare. E riflettere aiuta.
5. C’è stato un momento particolarmente significativo lungo il cammino?
Sì, più di uno. Ma ce ne sono tre che mi porto nel cuore.
Il primo è stato all’inizio, quando ho percorso con mia moglie il tratto da Canterbury a Tournehem-sur-le-Hem, in Francia. Solo 110 km, pochi ma intensi. Lei, che è un sacerdote anglicano molto impegnato, non ama le lunghe camminate come me, così abbiamo deciso che avrei proseguito da solo, con l’idea che mi avrebbe raggiunto per gli ultimi 100 km prima di Roma. E così è stato, nell’aprile 2025: abbiamo ripreso a camminare insieme il lunedì di Pasqua, partendo da Montefiascone. Quel giorno abbiamo saputo della morte di Papa Francesco. Amici a Londra ci hanno chiesto se saremmo rimasti per il funerale, ma all’inizio non sapevamo cosa fare. Poi, mentre camminavamo, l’ufficio della Comunione Anglicana a Roma è venuto a sapere del nostro pellegrinaggio e ha invitato mia moglie a far parte della delegazione ufficiale. Io sono stato accolto come suo consorte. Partecipare al funerale di Papa Francesco è stato un momento indescrivibile: un uomo di umiltà autentica.

Un altro episodio si è verificato sugli Appennini: sono caduto e mi sono ferito a una gamba. Per un attimo ho pensato che sarei rimasto bloccato lì. Dopo un po’, con fatica, sono riuscito ad arrivare fino all’ostello del Passo della Cisa. Ho seguito i consigli del sistema sanitario britannico e, dopo due giorni di riposo, sono ripartito. Da allora, sono molto più prudente: quando affronto tratti di montagna, dico sempre a qualcuno dove sto andando.
E poi ci sono gli incontri misteriosi. Il 3 maggio, mentre salivo il Monte Tavanese, sentivo il suono di un campanaccio che sembrava seguirmi. Quando mi fermavo, si fermava anche lui. Alla fine ho visto una mucca che ha camminato con me per un’ora, oltre la vetta, e si è unita al suo branco solo dopo avermi guidato. Qualche giorno dopo, uscendo da un B&B a Roccaromana prima dell’alba, ho trovato un cane che dormiva davanti al cancello. L’ho salutato e ha iniziato a seguirmi. L’ho invitato più volte a tornare indietro, ma ha continuato con me fino alla collina successiva, poi è sparito. È strano: nei luoghi in cui mi sono sentito insicuro o a disagio, non sono mai stato davvero solo. Come se qualcuno, o qualcosa, avesse mandato un segnale, un aiuto.


6. Secondo te, cosa non dovrebbe mai mancare nello zaino di un pellegrino?
Una piccola paletta da campeggio è fondamentale, ma anche il tempo da dedicare a chi incontriamo lungo la strada. Oltre a qualche impronta, l’unica traccia che dovremmo lasciare sono incontri che cambiano la vita, anche solo per un attimo.